Lorenzo Chiuchiù. Atleti del Fuoco. L’unicità presto con fuoco

L’UNICITÀ, PRESTO CON FUOCO

Una nota sulla metafisica della musica contemporanea

Ed. Mimesis, Collana Filosofie, pp. 201 – Aprile 2018

di Lorenzo Chiuchiù, capitolo estratto da Atleti del fuoco, per gentile concessione di Mimesis

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Articolo di approfondimento per la sezione Letteratura de

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A Eleonora Coletti
Ciò per cui lottiamo, eterna felicità è altro.
Oskar Kokoschka

La musica di Zarathustra

Ne Il convalescente, Zarathustra – «un risvegliato»1, ein Erwachter – «crollò al suolo come un morto e così rimase a lungo, come un morto». Zarathustra ha appena evocato il più abissale dei suoi pensieri e ne prova orrore: il «baratro parla», afferra («Ah, lascia!»), disgusta («Schifo, schifo, schifo!»). Ma non solo: Zarathustra, prima di svenire, diventa il suo proprio Abgrund. Ora l’abisso guarda se stesso con gli occhi dell’uomo. E che cosa ha visto Zarathustra prima di svenire, che cosa l’abisso in Zarathustra? Al suo risveglio gli animali che lo circondano dicono: «Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l’anno dell’essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l’essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l’anello dell’essere». Questa sembrerebbe essere la sostanza dell’eterno ritorno, il contenuto del pensiero abissale di Zarathustra. Ma questo contenuto, protesta Zarathustra, è semplicemente «una canzone da organetto» (Leier-Lied). Quel pensiero deve diventare mortale e terrestre, solo così potrà essere musica vera; il che per Nietzsche significa: musica che illumina un destino, più che descrivere un ordine metafisico. Zarathustra ha attraversato la soglia del rischio estremo, ha dovuto, per affermarlo, sciogliere il cerchio dell’eterno ritorno: «Io ne ho morso il capo e l’ho sputato lontano»2. Una verità che non trasfiguri la vita3 di chi la fa propria, per Zarathustra, non merita di essere considerata tale. La verità dell’essere deve sprofondare nella carne; nessuna cosmologia o descrizione dell’ente, per Zarathustra, può spingersi oltre una musica da organetto: è poco più di una manovella che aziona un rullo sonoro. La musica è qui contesa fra la lira (Leier) e l’organetto (Drehorgel). Ovvero fra il pericolo – la lira di Apollo è quella di un Dio terribile che uccide da lontano – e la sua caricatura. Qualsiasi spiegazione del mondo che non preveda l’uomo come evento produce lo stesso effetto di una musica da barbieria. Ma cosa significa che la musica di Zarathustra deve contemplare l’uomo come evento? Ereignis per Heidegger è quella reciproca appropriazione (eigen, proprio) fra uomo e essere4: ciò che viene definito Üebereigen è esattamente la connessione originaria secondo la quale l’essere ha bisogno dell’uomo per accadere: ovvero è legato alla temporalità dell’uomo. Heideggerianamente, essere e uomo non esistono come degli in sé separati che poi entrerebbero in relazione. Per usare la terminologia di Nietzsche: non esiste eterno ritorno senza l’Abgrund uomo. Pensare l’eterno ritorno senza l’uomo significa pensare la fisica stoica, proprio come fanno gli animali di Zarathustra. Costoro non comprendono come l’uomo si appropri dell’eterno ritorno e di come l’eterno ritorno esista solo attraverso l’uomo: non comprendono l’Ereignis. L’eterno ritorno non è infatti una meccanica universale di cui l’uomo sarebbe vittima o spettatore, così come invece lo intendono gli stoici quando affermano che «la ricostituzione del tutto avverrà non una, ma più volte, o meglio le stesse realtà si ricostituiranno all’infinito e senza limite»5. Qui, va sottolineato, la ricostruzione del tutto, l’eterno divenire identico, coincide con l’essere musicale del kósmos. Già in Pitagora la sintassi dei suoni è scienza dell’armonia, ovvero scienza delle relazioni che costituiscono e nello stesso tempo spiegano il kósmos. L’arché – il numero – determina l’universo come ontologicamente armonico. I numeri sono gli elementi (stoicheîa) che generano tutti gli enti. La musica dunque non solo manifesta l’armonia del tutto, ma è essa stessa il tutto armonico. Se il numero è l’arché, il kósmos è un’immensa partitura che armonizza gli enti. La musica suonata dagli uomini è perciò de facto, invariabilmente, musica dell’universo: se non esistesse la musica dell’essere, nessun uomo potrebbe inventarla. Per il Greco, ogni composizione musicale è una specie di variazione sul tema cosmologico. La stesso nesso metafisico – sebbene non fondato sulla physis, sulla realtà diveniente, ma sulla volontà creatrice di Dio – ritorna nel De musica di Sant’Agostino: la musica permette di passare per corporalia ad incorporalia perché la gerarchia dei rapporti numerici nella musica (numeri-ritmo) è la stessa che informa la struttura della creazione (numeri æterni). Eppure, per Zarathustra, tutto questo sarebbe ancora musica delle sfere, ancora un concerto nel quale l’uomo è oggetto fra gli oggetti e spettatore: musica da organetto. In una lettera del 1883 a Peter Gast, Nieztsche annovera lo Zarathustra sotto la voce «sinfonie». La sinfonia è una ontologia che prevede l’uomo come Ereignis: l’organetto è distrutto per sempre, «perché, vedi Zarathustra, per le tue nuove canzoni occorrono nuove lire»6.

Musica nova

I mezzi e le articolazioni della tonalità corrispondono alla struttura e al dispiegarsi di una filosofia della totalità; lo spazio e il tempo assoluti di Newton, lo Spirito di Hegel e il dramma wagneriano, rappresentano nella metafisica occidentale il medesimo compimento.Ma come nel ’900 l’essere cessa di configurarsi attraverso la logica di un sistema fondato metafisicamente7 (Zarathustra che sente ogni metafisica come musica da organetto è l’artefice e il primo testimone di questa crisi), così la musica moderna abbandona i principi armonici e melodici codificati dal sistema tonale: e questo non riguarda l’estetica, ma l’ontologia. È Adorno a rilevare che ormai «gli accordi tonali si rivelano come impotenti clichés». Impotenti: ovvero non dicono nulla della verità dell’essere; clichés, perché esprimono l’inautenticità dell’esistenza, l’assenza di decisione: ecco il dysmoron – l’assenza di destino – di cui parlava Hölderlin. Di nuovo: questi accordi suonano la musica da organetto degli animali di Zarathustra: sono esteriori e falsamente oggettivi, non si sono fatti carico di una decisione circa il senso dell’essere. Sono impotenti perché falsi, e perciò brutti: Sibelius «lavora solo ed esclusivamente con le armonie tonali, ma queste ci suonano false, come se fossero delle enclaves nell’interno della sfera atonale»8. Il sistema tonale occidentale (melodia, armonia, contrappunto, forma e strumentazione) è una delle possibili partizioni all’interno della sfera atonale o pantonale (così come la fisica di Newton è contenuta nella meccanica quantistica, o la geometria euclidea è contenuta dalla geometria n dimensionale). La sua grandezza, per Adorno, si è esaurita con Wagner e con il suo Gesamtkunstwerk: impossibile riproporre nel ‘900 l’opera d’arte totale come forma sintetica e panlogica. Se la dodecafonia critica il nesso gerarchico che informa la tonalità, allora la relazione fra ieros e arché assume nuove forme: non più superamento dialettico (Aufhebung) e edificazione (Erhebung), ma una specie di purificazione che tende all’elementale; non più sintassi, ma intensificazione del singolo suono. Non più canto ma Sprechgesang, stile che aliena il suono cantato (che mantiene la sua altezza) dal suono parlato (che da quell’altezza sale o scende). Non più pertanto rappresentazione di una metafisica in atto – la musica per Schopenhauer – che postuli una specie di identità essenziale – e dunque un’armonia prestabilita – fra uomo e physis, ma una specie di decisione che interviene nel senso dell’essere. L’«emancipazione della dissonanza», ovvero il trattare «la dissonanza allo stesso modo della consonanza»9 rinuncia al centro tonale e ad ogni presunta naturalità delle progressioni armoniche e melodiche. Schönberg, nella musica moderna, incarna proprio questa decisione– o evento: la composizione con dodici suoni ricapitola l’intera tradizione musicale, ma ne sconvolge il fondamento. Schönberg interrompe la specularità fra numero e kósmos: è come se «il metodo di composizione con dodici note poste in relazione solo l’una con l’altra»10 precipitasse il cosmo nella nota singola, quasi che ogni nota diventasse un cosmo che ne attrae altri secondo il principio della serie e non più della gerarchia. (E in questo senso sono emblematiche le isole che compongono l’arcipelago musicale del Prometeo di Luigi Nono11). In Schönberg è come se ogni singola esistenza diventasse un cosmo; in questione è «sempre l’esperienza di singoli individui»12, una certa responsabilità per un destino inoggettivabile. Dunque, non più parallelismo fra musica e immagini della physis, ma una specie di iconicità secca che diventa afasia. Schönberg scrive che «le condizioni della dissoluzione del sistema sono contenute in quelle stesse condizioni che lo determinano, e che in tutto ciò che vive esiste ciò che modifica, sviluppa e distrugge la vita. La vita e la morte sono contenute nello stesso seme, e nel mezzo sta solo il tempo, cioè nulla di essenziale ma solo una misura che finisce con il colmarsi. Da questo esempio si deve imparare ciò che è eterno: il mutamento; e cosa è temporale: l’esistenza»13. Mutamento ed esistenza si coappartengono come evento: entrambi appartengono ad una specie di unità. Non il tempo cronometrico è essenziale (lo scarto bruto fra vita e morte), ma la temporalità dell’esistenza che assume una decisione nel suo rapporto con l’Uno (il seme, l’origine del divenire, l’eterno ritorno). È la decisione di Zarathustra che mozza la testa del serpente, la musica delle sfere interferita dall’Ereignis: l’uomo che tenta di appropriarsi del senso dell’essere14.

Comporre il silenzio

Il «seme che tutto contiene» di Schönberg rimanda all’Uno di Plotino, il Primo – to en to proton – da cui si origina tutto ciò che è composto, il syntheton15. Da esso scaturisce il divenire. Ma l’Uno è anche l’assolutamente semplice, al di là delle idee e dell’essere. È possibile concepire la musica dell’Uno? La pura, impensabile semplicità al di là dell’essere implica il perfetto silenzio: la musica dell’Uno è inudibile perché al di là della relazione che sola istituisce una musica. Perché la musica dell’Uno fosse udibile bisognerebbe poter predicare dell’Uno almeno l’essere. Ma se lo si fa, fatalmente, si entra nel regno del tre: è infatti possibile udire solo l’uno-che-è. Non si ode l’uno, ma il tre: l’uno-che-è presuppone l’uno, l’essere e la relazione fra i due: prevede cioè una relazione triadica che è il nucleo germinale di ogni armonia. L’armonia è tradizionalmente la relazione fra singoli suoni simultanei ma, poiché ogni singolo suono è udibile in quanto uno-che-è, allora ogni armonia è sempre armonia di un’armonia: ogni sintassi dei suoni coordina nuclei – le note – che sono singolarmente udibili solo in quanto, esse stesse, sono una relazione armonica. Insomma, ogni singola nota è armonica in se stessa (in quanto uno-cheè) e nello stesso tempo è partecipata dall’inudibile dell’uno (arché). Ci si domanda ora: visto che la musica dell’Uno come Primo è inudibile come immediato, è forse possibile comporla? Può essere un risultato che nasce da quell’evento che, nell’Uno, reciprocamente espropria uomo ed essere (vita e morte, eterno movimento ed esistenza)? La nuova lira di Zarathustra è forse destinata a suonare il silenzio? Si può interpretare la musica contemporanea come una particolare forma di prometeismo che lavora per comporre il silenzio, e opere differenti possono essere accomunate da questa ambizione: rendere udibile la musica dell’Uno in quanto evento, esito, del rapporto fra uomo ed essere (e non in quanto sempre inattingibile inizio mitico). La dissoluzione della metafisica del sistema può cioè tendere verso questa particolare mistica dell’Uno16. E a questo tendono, solo per citare i tentativi espliciti, gli studi di Cage sugli I-Ching, Le Chemin de l’Invisible, undicesimo movimento di Éclairs sur l’au-delà di Olivier Messiaen, gli «altri abissi» del Prometeo di Luigi Nono, la Lux Æterna di György Ligeti. In sede di tecnica strumentale, come rileva Stefano Ragni, a questo tende l’echoton, «il culmine pulviscolare di dissoluzione», o «le tecniche di allontanamento del suono»17 di Ciro Scarponi. Ma è davvero possibile comporre il silenzio? Il silenzio non è esclusivamente ciò che precede o segue una nota? Perché dunque la musica moderna dovrebbe voler comporre il silenzio? Sembra una pura contraddizione. Eppure, per Luigi Nono, «ascoltare l’inaudibile»18 significa comporre istanti indeducibili, segnati dall’Uno. Eppure, induisticamente, esiste una certa disposizione armonica di suoni che produce il puro silenzio. Il silenzio è l’esito di una composizione: gli uomini sanno, come afferma un testo dei Brahmana, «che quando essi dicono neti (no), gli Dei dicono om iti (sì) e viceversa. Il sì e il no pronunciati insieme producono il completo silenzio della parola non detta: la parola totale e vera»19. Non è forse questo l’evento che fa collidere, musicalmente, il singolo e l’eterno ritorno? Non è forse questo il vero Schicksalslied, canto del destino?

Note

1 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, versioni e appendici di M. Montinari, nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 1968, p. 4.

2 Ivi, p. 256. Zarathustra associa l’eterno ritorno al serpente strisciato in gola al pastore addormentato: «Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e – lì si era abbarbicato mordendo. […] Allora un grido mi sfuggì dalla bocca. “Mordi, mordi! Staccagli il capo! Mordi!” […] Il pastore, poi, morse come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente –: e balzò in piedi. – Non più un pastore, non più un uomo, un trasformato, in circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise» (ivi, p. 186).

 3 Per sette giorni Zarathustra non mangia e non beve, cade in un sonno letargico simile a quello degli sciamani, è «reso malato dalla sua stessa redenzione» (ibidem): tutto indica che Zarathustra «il risvegliato», oltre a ricalcare Gesù, ha delle affinità con Buddha.

4 Cfr. M. Heidegger, Identità e differenza, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009.

5 H. Von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Stutgardiae In aedibus B.G. Tuebneri, Lipsia 1903, II, fr. 625.

6 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 258.

7 La cui forma compiuta è l’hegeliano System der Wissenschaft. Il «sistema scientifico della verità stessa», la cui articolazione dialettica compendia il senso complessivo della metafisica greca e cristiana.

8 Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, tr. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 1959, p. 40.

9 A. Schönberg, Stile e idea, a cura di L. Pestalozza, Pgreco, Milano 2012, p. 108.

10 Ivi, p. 110.

11 Cfr. M. Cacciari, Le isole della tragedia, intervista di G. Del Re, in “il Messaggero”, 24 settembre 1984, p. 3.

12 A. Schönberg, Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, tr. it. di G. Manzoni, il Saggiatore, Milano 1978, p. 12.

13 Ivi, p. 37.

14 Nel caso della musica del XX secolo, dalla dodecafonia a Penderecki, unica è la decisione: si decide la creazione a partire da un senso dell’essere che non è sistema di gerarchie.

15 Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, p. 1338.

16 Oltre che verso una deriva nichilistica. Ad esempio Mann, con il suo Leverkühn, dà una lettura sostanzialmente nichilista di Schönberg. Ma la dodecafonia è semmai la formalizzazione di una specie di disarmonia prestabilita più che l’espressione del caos o del demoniaco. Nella corrispondenza con Mann, così come negli scritti teorici, è chiaro che esiste in Schönberg un’istanza levitica, di nuovo nomos musicale, che non riguarda prioritariamente l’eversione.

17 S. Ragni, La musica dell’aria: suono e luce nel clarinetto di Ciro Scarponi, con un ricordo di Massimo Cacciari, Guerra Edizioni, Perugia 2013, p. 19.

18 L. Nono, Ascoltare le pietre bianche, intervista di F. Miracco, “il manifesto”, 23 ottobre 1983.

19 R. Panikkar, I Veda, a cura di M. C. Pavan, Bur, Milano 200

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