Al porto di Taroudannt

Al porto di Taroudannt

di Paolo Ansideri 10/09/18

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Articolo di approfondimento sezione Sulla Differenza

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26/11/06 – Partì in dorso a Gemuniel, di notte, per non farsi vedere, lo sguardo non doveva coglierlo nel momento della partenza. Nessun occhio doveva assistere all’incamminarsi, allo sparire. Se ne andava per trovare altri posti dove era possibile cominciare a sentire. Arrivò al porto di Taroudannt che era il tramonto, la nave entrò nel piccolo porto con le vele abbassate, lentamente spinta dall’ultimo sforzo del vento. D’inerzia. I movimenti lenti del timone si componevano con le operazioni dei marinai e con i loro avvertimenti che a poppa indicavano al capitano le manovre da effettuare per evitare collisioni in quel caos infernale di barchette, reti, vele, vascelli, remi, corde, alberi e ancore. E subito fu investito da quello per cui aveva fatto un così lungo viaggio. Una massa di gridi, voci, strilli incomprensibili, giunsero al suo orecchio. Tutto d’un colpo, d’improvviso, dopo la lentezza meditativa del viaggio, il rumore del mare, lo stormire ultimo dei gabbiani, il poco parlare dei taciturni compagni di viaggio, dopo questa pausa meditativa, d’un botto si trovò scaraventato tra gli stranieri. Sceso a terra, sbarcato il cavallo, allontanatosi di pochi metri dal pontile, lasciati i marinai al loro veliero, era finalmente diventato straniero. E la lingua sconosciuta finalmente lo lambiva, lo sfidava ed accoglieva osteggiandolo, ostentatamente affrontandolo.
04/12/06 – Non capire le frasi che gli lanciavano contro. Accompagnate da una gestualità anch’essa incomprensibile. Sottoporre la sete, la fame e le necessità primarie, alla prova della lingua sconosciuta, ricominciare dal corpo immerso nelle parole sconosciute, mettere alla prova il corpo entro un discorrere estraneo, che lo spingeva fuori di sé. Tentativi di comprensione, arrancamenti dentro la decifrazione di una totale estraneità. Sfida continua ed estenuante di trovare sensi, di comporre chiarezza ed evidenza pratica dietro l’oscurità del vociare. Voci che emettevano versi non componibili in senso, un muro tutto il giorno si parava davanti ad ostacolare la soddisfazione dello stomaco per saziare la fame. Il mercato nascondeva ogni possibilità di relazione ad appropriazione della merce, se non con ardite scalate di significati oscuri. Ardita ogni emissione vocale che gli si proponeva pur nella ripetizione dell’interlocutore che cercava così di farsi comprendere, isolato nel suo discorrere interiore, rimasto tutto nella sua mente. Il suo linguaggio, gli era diventato inservibile, solo con esso curava se stesso e si ridava organizzazione della propria persona, delle proprie cose che ancora per lui, ma solo per lui in quel luogo, erano sue cose e suoi nomi. In questa bolla si sentiva rinchiuso, allontanato, respinto, ma da questa stupefacente insolazione riusciva ad intravedere dall’altra parte, che pur un barlume si poteva intuire, che invece agli altri era assoluta evidenza. In questo rimescolamento dei versi della gola, della voce in suoni così diversi, pensava che potesse dilatarsi una dominazione di un non sole, di una non strada, un non cibo, un non fratello, non moglie. E voleva rimanere in questa penombra della comprensione perché solo da lì poteva stirare il collo, sforzare le mente per afferrare almeno una corrispondenza con la “e”, ma si augurava che anche questa alla fine fosse una non”e”. Si augurava di non poter tradurre. Di poter sparire dalla sua lingua per trovarsi d’improvviso in un altro senso, ma questo ostacolo voleva che rimanesse, andare e venire della comprensione, un tentativo in avanti con apparente successo quando l’interlocutore mostrava assenso alla sua comprensione, ma formidabile deriva, risacca nella vastità dell’incompreso, del fluire delle voci e discorsi in cui ripiombava ogni granello capito.
Tratto da 2006

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