Benvenuti nel pianeta Freespace


16° Biennale Architettura  – Venezia 26/05-25/11/18

Benvenuti nel pianeta freespace

A Venezia l’architettura stringe un patto con le città. E lancia una sfida: abbattere i muri, rilanciare gli spazi liberi.

di Luca Molinari

da L’Espresso n°21 del 20/05/18

trascrizione a cura di Simone Menichelli

Camminando lungo via Cavour, a Firenze, la sagoma imponente del cinquecentesco palazzo Medici Riccardi si palesa con tutta la sua forza materica e chiarezza compositiva.

Palazzo Medici Riccardi, Firenze

Il ruvido bugnato del piano terra si assottiglia nei piani superiori a diventare trama regolare mentre le grandi finestre a bifora ritmano con eleganza i due piani nobili che vengono conclusi dall’imponente cornice della copertura. Tutto è stato pensato per dare la chiara sensazione del potere e della ricchezza dei suoi committenti, mentre c’è solo un elemento che sembra contrastare con questa immagine, una serie di sedute in pietra, che corrono lungo il piano terra del palazzo, offerte ai cittadini e ai pellegrini stanchi.

Perché sono state realizzate queste panche? Che senso hanno rispetto al progetto complessivo dell’edificio? Probabilmente si possono interpretare come simbolo della generosità della famiglia più potente di Firenze o come idea che ogni palazzo, indipendentemente dalla scala e importanza, è anche un frammento vivente di un complesso più vasto e complesso di un corpo che noi chiamiamo città. E questa riflessione è confermata dal fatto che questi elementi non si limitano a questo specifico edificio ma che si possono ritrovare in altri manufatti dello stesso periodo storico generando una sottile continuità tra pubblico e privato, tra architettura e città senza apparenti cesure. Le panche in pietra di Firenze sono uno dei sorprendenti esempi citati nel manifesto ‘’Freespace’’ che le irlandesi Yvonne Farrel e Shelley McNamara, in arte Grafton Architects, hanno scelto per lanciare l’edizione della 16ª Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Ma cosa vuole dire Freespace? Non è apparentemente l’opposto di quello che abbiamo sempre definito come architettura? Se lo spazio è ‘’free/libero’’, e quindi di non è progettato, che ruolo immaginare allora per l’architetto? Andiamo direttamente alle parole delle curatrici: Freespace rappresenta la generosità di spirito il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio. Freespace si focalizza sulla capacità dell’architettura di offrire in dono spazi liberi e supplementari a coloro che ne fanno uso,
nonché sulla sua capacità di rivolgersi ai desideri inespressi dall’estraneo.

Palazzo Medici Riccardo, Firenze, “panca di via”

Freespace celebra l’abilità dell’architettura di trovare una nuova inattesa generosità in ogni progetto, anche nelle condizioni più private, difensive, esclusive, commercialmente limitate.
Si tratta dell’incipit di un documento dalla forte valenza simbolica e politica perché carica l’architettura di una funzione pubblica necessaria di cui sentiamo tutti il bisogno in un momento storico in cui il desiderio di alzare i muri e creare barriere emerge in ogni parte del mondo. Cosa vuole dire pensare a spazi ‘’generosi’’ in un periodo dominato dalla paura e dall’esasperazione delle differenze? Le nostre metropoli sembrano continuamente celebrare la separazione tra le persone e le loro possibilità, costruendo confini quasi invisibili che definiscono città ad accesso limitato privilegiato. In un mondo in cui tutto apparentemente è aperto e a portata di clic, sono invece aumentate le disuguaglianze rappresentate degli spazi urbani o i servizi elementari cui è difficile accedere, ingenerando una rabbia sociale sempre più chiara che diventa voto di protesta e violenza sui luoghi e le persone. Tutto questo chiama un ruolo diverso dell’architetto, togliendolo da quell’angolo cieco che lo vede semplice produttore di belle forme per pochi privilegiati, in nome di una figura presente e attiva nella vita sociale dei nostri paesaggi metropolitani. In un tempo votato all’impalpabile, in cui si costruirà sempre di meno per mancanza di territori e risorse, l’architettura diventa arte di gestire complessità crescenti e di ascoltare le voci confuse della società contemporanea offrendo soluzioni e visioni adatti a un tempo nuovo. A questo punto il Freespace, lo spazio non costruito, il vuoto tra le cose diventa una risorsa potenzialmente inattesa e preziosa per chi voglia dare forma a nuove relazioni tra persone e spazi abitati. Dobbiamo immaginare che le città moderne, quei conglomerati urbani che a partire dall’inizio dell’Ottocento ad oggi hanno progressivamente accentrato quasi il 60 per cento della popolazione mondiale, sono state costruite sulla negazione degli spazi liberi. La città moderna è stata pensata, pianificata e costruita per organizzare la vita di milioni di persone, il loro tempo, le funzioni primarie e i flussi, secondo modelli razionali che inscatolassero ogni variante riducendo al minimo distorsioni e dispersioni. Il principio occidentale della privacy ha costruito le nostre case e città ha progressivamente cancellato l’immagine antica della città come luogo di incontro e scambio fondato sulla centralità degli spazi pubblici. Non esistono più panche di pietra all’ombra dei grattacieli che costruiamo, ma spazi pensati per muoversi rapidamente. Questa condizione sta progressivamente corrodendosi perché emerge sempre di più il bisogno degli individui di tornare a stare insieme, intrecciare relazioni differenti, scambiare storie e condividere programmi concreti con cui cambiare i luoghi che abitiamo. Le persone sono tornate per strada e nelle piazze, occupandole, realizzando orti e giardini dove prima era abbandono, studiando strategie di rinnovamento dal basso che stanno trovando amministrazioni attente, trasformando luoghi pensati per funzioni invecchiate in ambienti per comunità fluide che si rinnovano continuamente. La selezione di molti dei progettisti invitati dalle Grafton a questa Biennale di Architettura sembra portare esempi interessanti su come lavorare attivamente sugli spazi liberi trasformandoli in occasioni. Lo studio londinese Assemble ha costruito la propria fortuna un cambio radicale del proprio ruolo sociale, costruendo vere piattaforme partecipative in cui comunità locali sono coinvolte nel recupero di trasformazione di edifici abbandonati in nuovi beni comuni. Laboratori di ceramica e colore, autocostruzione e attività didattica condivisa, architetture temporanee, micro teatri realizzati sotto cavalcavia autostradali sono solo alcune delle azioni progettuali immaginate da Assemble per attivare un dialogo differente con il reale.

 

       

 

 

 

 

 

 

 

 

A latitudini differenti, ma con lo stesso impatto sociale, è l’esperienza della messicana Rozana Montiel che da cui anni lavora sulla ricostruzione della vita comunitaria nei complessi di case popolari in un’area periferica di Città del Messico. L’azione progettuale è elementare e sta sortendo effetti interessanti grazie alla realizzazione di micro strutture pensate insieme gli abitanti all’interno dei cortili centrali utilizzati fino a quel momento come spazi abusivi privati.

 

 

 

La danese Dorte Mandrup


da anni utilizza i tetti delle scuole e degli asili che progetta come spazi per il gioco inattesi e coloratissimi. Il ruolo dell’architetto diventa in questa prospettiva molto interessante perché il suo ruolo è quello di mediare tra forme di complessità crescenti e, insieme, di offrire strategie e soluzioni capaci di dare forma a immaginari collettivi nuovi, capaci di creare spazi accoglienti, flessibili e trasversali nell’uso.

 

 

 

Pochi anni fa lo studio danese BIG e i berlinesi di Topotek1 hanno realizzato Superkilen,

  

una piazza/parco pubblico in uno dei quartieri di Copenaghen più problematici dal punto di vista dell’integrazione sociale grazie alla presenza di più di sessanta nazionalità differenti. Il risultato è un intervento pieno di vita, un’eslosione di rosa, viola, rosso, blu nel cuore della capitale nordica, realizzato con forme e materiali morbidi e sinuosi. Un luogo immaginato per accogliere le differenze e attivare i dialoghi e incontri considerati impossibili, al punto da essere stato premiato con l’Aga Khan Award come testimonianza di un’architettura capace di unire invece che dividere. In una società fluida e potenzialmente conflittuale come quella che popola le nostre metropoli, lavorare sui vuoti esistenti vuole dire caricarli di un ruolo di coesione sociale e culturale molto potente e l’idea che uno spazio libero, non fissato rigidamente da funzioni e ruoli riconoscibili culturalmente possa essere posto al centro dell’agenda politica della nostre città potrebbe rivelarsi una strategia vincente. Si tratta di una scommessa rilevante che, però, richiede una forma di maturità politica e collettiva non scontata, che va costruita quotidianamente e che si basa sulla conoscenza reciproca, l’ascolto e l’attenzione per le differenze che ci circondano. Questi sono alcuni dei presupposti del progetto di Laura Peretti,

l’architetto che ha vinto il concorso internazionale per la realizzazione degli spazi pubblici ai piedi del famigerato Corviale, ai margini di Roma. Un astronave progettata negli anni settanta per ospitare 8000 persone che è diventata uno dei simboli della peggiore periferia italiana insieme allo Zen di Palermo e alle Vele di Secondigliano. Dopo tanta demagogia e rischio di un inutile abbattimento si è deciso di lavorare sugli spazi pubblici e di supporto a questo edificio/città. Una soluzione apparentemente più leggera ma anche il segnale che solo dalla riforma dei vuoti abbandonati che circondano queste cattedrali nel deserto si può lavorare per radicarle al suolo e al paesaggio che le circonda. Il manifesto di Freespace chiude con una frase illuminante: Siamo convinti che tutti abbiano diritto di beneficiare dell’architettura. Il suo ruolo, infatti, è di offrire un riparo i nostri corpi e di elevare i nostri spiriti. Solo l’architettura come sostanza di cose sperate può essere un rimedio per metropoli fragili che chiedono ambienti a misura d’uomo e progetti capaci di unire e offrire luoghi caldi in cui costruire un futuro migliore per le generazioni che verranno.

 


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